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27 gennaio – Giornata della Memoria
La Memoria, vaccino contro l’indifferenza.
Noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Senza memoria non esistiamo e senza responsabilità forse non meritiamo di esistere (José Saramago).
Memoria e Ricordo sono termini simili eppur diversi. La memoria indica un’attività della mente, la facoltà di mantenere vivi i contenuti del passato, anche in modo corale e sociale. Il ricordo è più individualistico e soggettivo, personale.
Il 27 gennaio di ogni anno si celebra in tutto il mondo il Giorno della Memoria: ma cosa si intende per “memoria”? E perché, e soprattutto cosa, oggi, è importante ricordare? Di certo, la Storia. E le storie, testimonianze che ci riguardano da vicino. La Giornata della Memoria è un’occasione – solo una – per recuperare e valorizzare la necessità della conoscenza e dell’assunzione di responsabilità, per farsi eco delle voci vive che si vanno via via spegnendo, per onorare coloro che non esistono più.
Se dovessimo dedicare un minuto di raccoglimento per ogni vittima ebraica uccisa dal regime nazista, circa 6 milioni di individui, dovremmo rimanere in silenzio per oltre 11 anni. Secondo il Museo dell’Olocausto di Washington furono però molte di più, tra i 15 e i 20 milioni, le vittime di quella triste pagina della storia umana. Il genocidio compiuto dalla Germania Nazista avvenne nei confronti non solo degli Ebrei ma anche di soggetti discriminati come disabili, omosessuali, rom e sinti, oppositori politici. E più si allontanano gli eventi, più si accresce la costruzione di distorsioni e verità di comodo che rischiano di offuscare queste evidenze.
La Memoria è un bene prezioso e doveroso da coltivare, per contrastare la disinformazione, il negazionismo, il revisionismo. La riflessione sul passato è pratica virtuosa, da frequentare quotidianamente, nella costruzione di senso di cittadinanza, politica della persona e comunità. Ogni giorno. Esprimere il coraggio civile ed esercitare la libertà di pensiero, anche di fronte alle situazioni più scomode, è qualcosa di fondamentale per coltivare umanità e possibilità di democrazia. Significa non cadere nella zona grigia dell’indifferenza.
Primo Levi definiva “zona grigia” quella parte di prigionieri collaborazionisti che faceva sì che il meccanismo del lager funzionasse, senza ribellarsi, in cambio di qualche falsa speranza di libertà. La degradazione e la spersonalizzazione dell’individuo si è declinata anche in una guerra tra disperati, tra compagni che fino a qualche mese prima erano vicini di casa, amici, parenti.
Arrivati ad Auschwitz, o in altri luoghi simili, i deportati venivano spogliati, rasati, privati di ogni bene o effetto personale, omologati con lacere divise a strisce, contrassegnati da marchi identitari come colpe, tatuati con numeri al pari di capi di bestiame. Come bestie erano ammassati e recisi negli affetti più cari. Ad Auschwitz una targa recita: «Solo quando nel mondo a tutti gli uomini sarà riconosciuta la dignità umana, solo allora potrete dimenticarci». Se riconoscere la dignità umana significa fare in modo che non esistano più i discriminati, i diversi, gli incompresi, gli umiliati, allora siamo lontani dal poter dimenticare ciò che è accaduto.
La Shoah si pone come l’esito catastrofico di un clima culturale e ideologico basato su pulsioni irrazionali, inconsce e collettive, fondate sulla negazione dell’Altro, che hanno preso forza da un antigiudaismo secolare e che hanno attraversato l’Europa e la cristianità. Pulsioni che hanno raccolto elementi di lungo corso: l’aver posto un’appartenenza etnica, l’essere ebrei, a capro espiatorio (l’Altro, il male); incolpato tanto delle epidemie nel Medioevo, quanto responsabile dei malesseri economico-sociali nel Novecento.
Questi processi mentali circolano ancora oggi. La spersonalizzazione dell’individuo è anche ciò che induce a percepire esseri umani molto diversi fra loro semplicemente come un’unica categoria, e a non considerare le evidenze che contraddicono la percezione /categorizzazione. Finendo per considerare tutti i membri di un certo gruppo come assimilabili, per non vedere “l’uomo”. Questa iper-generalizzazione, questo tipo di processo sommario anche solo mentale, si definisce stereotipo. L’umanità si perde minuto dopo minuto, giorno dopo giorno, in tutte le migliaia di piccole insignificanti negligenze ed omissioni, in tutte le scuse con cui inganniamo la coscienza.
Nella nostra società ci sono molti esempi di persone che restano spettatori di fronte a episodi di discriminazione, bullismo o aggressione. A tollerare la visione di profughi, migranti, esuli di guerra, donne, uomini, bambini in coda per ricevere un po’di cibo, scalzi con i piedi nella neve, privi di un riparo e trattati senza umanità. A non vedere “l’uomo”, un padre, un figlio, una sorella. Un’indifferenza collettiva, e globalizzata.
Tra i tanti casi di odio etnico e nazionalistico del XX secolo, la Shoah è stata l’apice, per l’enormità delle cifre, la sistematicità della strage ed il silenzio civile e politico di fronte a ciò che stava avvenendo nei lager. Lo sterminio degli Ebrei è stato attuato nel cuore dell’Europa dove, almeno in apparenza, principi come tolleranza e libertà politica sembravano divenuti patrimonio comune e condiviso. Il fallimento ha riguardato la sospensione del giudizio, l’incapacità di essere custodi gli uni degli altri, l’ignorare le grida di dolore, il lasciarsi trascinare dalla paura e dalla massa.
La democrazia senza un costante ed individuale esercizio di partecipazione rischia di diventare parola vuota, così come la libertà. Democrazia e libertà non si possono esercitare da spettatori, ma con azioni, per “dare forma” al mondo, contro il male dell’indifferenza, l’essenza della mancanza di umanità.
“I CARE” è il motto dei giovani americani migliori: “me ne importa, mi sta a cuore”. È il contrario esatto del motto fascista “me ne frego”.
“L’indifferenza è più colpevole della violenza stessa. È l’apatia morale di chi si volta dall’altra parte: succede anche oggi verso il razzismo e altri orrori del mondo. La memoria vale proprio come vaccino contro l’indifferenza” [Liliana Segre].